[Inter Campus Bosnia Erzegovina: riappacificazione più che integrazione]

“La Bosnia è uno di quei paesi che non si conoscono mai sino in fondo, e soprattutto non si conoscono sino a quando non ci si mette piede.

La verità su questi luoghi, se poi vogliamo dirla tutta, è che quando si inizia a entrare nel merito, quando si va lì, quando si parla con la gente, si ascoltano le storie, si vedono i volti cambiare nella narrazione, tutto si complica.

L’essere umano è un soggetto bizzarro, capace di affetti sconsiderati, ricco di talenti magnifici ed al tempo stesso efferato, volgare, schifoso.

La guerra, le guerre, dicono quelli che tentano di capire la storia, sono capitoli a parte: tutto è possibile quando il tuo vicino diventa nemico da un giorno con l’altro, quando non c’è più’ acqua e se esci a cercarla ti sparano dalla collina.

Quando sei in sala, tuo figlio piccolo è vicino a te, e un colpo di fucile lo uccide. Un secondo prima c’era, dopo non c’è più. Per sempre.

Ve lo immaginate? Ve lo potete immaginare? Se non la avete vissuta, la guerra, no, non ve lo potete immaginare.

E noi qui, nel nostro belpaese siamo tremendamente fortunati in queste ultime due/tre generazioni, viviamo uno dei periodi di pace più lunghi che la storia ricordi, e lo diamo un po’ per scontato.

Temiamo i fine settimana piovosi, le code ai musei (se ci andiamo) e un paio di altre cose, alcune anche legittimamente, ma la guerra no. Quella anche da noi ha fatto danni tremendi, alcuni taciuti, altri che ancora occupano spazi nelle cronache di tutti i giorni, ma temerla la guerra in sé, no, in Italia almeno questo, per fortuna no.

 

Detto ciò, Sarajevo è un’altra storia. Sospesa.

 

Nessuno ne parla, della guerra, ma è lì. Col suo carico di morti ammazzati, edifici mozzati, bucherellati. Con le facce dei suoi abitanti che fumano tanto, ovunque. Facce tirate, rugose, molto vissute, spesso molto belle.

Non ne parlano perché l’hanno vissuta, ed è stata così tremenda questa guerra lontana vent’anni, che è meglio non ricordare. Fa male. Eppoi non c’è una logica con la quale la si può spiegare, raccontare, risolvere.

 

Se chiedi, non si sa perchè è scoppiata, non si sa chi l’ha voluta, chi l’ha vinta e quindi chi l’ha persa. Certo si possono trarre delle conclusioni più o meno logiche, ma la gente ti dice che a Sarajevo di guerre ce ne sono sempre state, hanno combattuto loro, i loro padri e prima i loro nonni, ed è stato sempre così. Ma non si odiano. È questo il dato disarmante per chi come noi va lì in cerca della formuletta magica che spieghi tutto: musulmani, cattolici e ortodossi che si disprezzano e tutto è per noi più chiaro, possiamo stare tranquilli, il paradigma si ripete: homo homini lupus(“l’uomo è lupo per l’altro uomo”).

Non è così. Qui vivono assieme, almeno a Sarajevo, e se gli chiedi se si detestano o provano qualche rancore (per noi alquanto giustificabile se ti mitragliano il padre mentre sta con te in casa) ti rispondono di no. Che non ci sono colpevoli fra le genti, sono gli stati, la politica quelli che hanno causato l’ultimo grande conflitto da queste parti, quelli che tengono divise le masse. Per questo il nostro titolo, riappacificazione e non integrazione, perchè quando abbiamo parlato degli obiettivi della nostra missione laggiù ai locali, motivando la nostra presenza con il desiderio di rafforzare l’integrazione, ci è stato gentilmente fatto notare che l’integrazione in una città che vede rappresentate praticamente tutte le principali confessioni religiose, c’è sempre stata, ed in una maniera piuttosto eclatante rispetto ai nostri standard.

Quindi riconciliare chi si è sparato, per non farlo più.

Anche se la certezza da queste parti, quando lo domandi, non c’è.

 

Tornando a noi: formiamo alcuni allenatori locali in contesti differenti, Domanovici in Erzegovina sulle colline fuori Mostar e a Sarajevo appunto. Cerchiamo di trasmettere loro, con rispetto ed umiltà, il nostro metodo tecnico/sportivo/ educativo, affinché lo utilizzino con i bambini del posto, per farli giocare, stare assieme, crescere. I risultati, a detta dei nostri partner sono arrivati, e nelle zone più isolate sono stati inaspettati e clamorosi: le comunità di cattolici che non si frequentavano con i musulmani adesso lo fanno. I genitori imparano dai figli, se si gioca assieme su di un campo a dieci anni, ci si può parlare a quaranta senza far pesare l’assenza di conoscenza come una colpa, è difficile che chi conosca odi, è sempre chi ignora ad aver paura di quello che non sa, che per definizione quindi teme.

Un gran lavoro quello fatto negli anni, e perdonate la poca modestia, ma allenatori e project manager dall’Italia che si sono susseguiti nel progetto e soprattutto i locali hanno dato prova di lungimiranza, intelligenza e bontà.

 

Li ringraziamo, perché come sempre, Inter Campus sono loro.”

20.05.2019

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